Pagine

domenica 16 maggio 2010

My life in 90s - Un tè in compagnia

I recenti episodi di cronaca legati a Stefano Cucchi e il suo omonimo Gugliotta, pestati da alcuni personaggi operanti nelle forze di polizia che forse dovrebbero onestamente cambiare mestiere, mi hanno fatto riaffiorare alla memoria un episodio avvenuto poche settimane dopo il mio trasferimento nella operosa Milano , all'epoca ancora da bere. Non c'è giudizio in ciò che racconto, solo il ricordo dello stupore provato davanti alla follia della violenza.


Nonostante l’avvicinarsi della stagione più fredda, il clima di Milano era ancora accettabilmente mite. Il mio primo mese di vita in quella città era trascorso quasi senza che me ne accorgessi per quanti eventi si erano avvicendati in rapida sequenza: avevo ottenuto una sceneggiatura di prova dal direttore di “ Topolino “ Gaudenzio Capelli in persona con la benedizione di Giovanbattista Carpi; frequentavo il “ Movimento Umanista “ che mi aveva consentito di conoscere un centinaio di persone in una sola giornata, permettendomi di superare l’eventuale disagio prodotto dalla solitudine, oltre a proporre idee e attività che avrei condiviso per un lungo periodo.

In quel pomeriggio d’Ottobre 1991 ero uscito dagli uffici della Disney di Via Dante 16 tenendo in mano il dattiloscritto sulla base del quale avrei dovuto realizzare le mie prime tavole di fumetto. Decisi di fermarmi da qualche parte in centro per mettermi a leggere tranquillamente; avevo poca voglia di tornare a casa, per non ritrovare troppo presto lo squallore della stanza affittatami in nero in quell’appartamento alla periferia di Sesto S. Giovanni che dividevo con due giovani i quali si sarebbero rivelati individui dal comportamento irrispettoso, arrogante e opportunista.

Giunto sotto i portici di Piazza Duomo, mi accomodai ad un tavolino del bar che allora esponeva l’insegna di una storica azienda dolciaria milanese. Ordinai un tè caldo, bevanda dal costo ancora sostenibile per le mie poco corroborate finanze, che avrei potuto sorbire in un tempo tale da consentirmi di leggere le venti pagine sceneggiate da Carlo Panaro. Il sole era ormai tramontato, cedendo alla luce artificiale dei lampioni il compito di rischiarare la suggestiva piazza.
E’ strano come una fonte d’illuminazione differente dal chiarore diurno sottolinei dettagli che prima non emergevano. Così, guardandomi intorno, mi accorsi che tra il sagrato della cattedrale milanese e, in corrispondenza della navata laterale sinistra, seduti sui rilievi del basamento a mò di passeri appollaiati sui fili del telefono, si erano radunati numerosi giovani filippini.

Per tutti gli anni ’80 e i primi ’90, la comunità filippina fu la più numerosa fra quelle di etnia straniera residenti in Italia; maghrebini, slavi e latino-americani sarebbero arrivati massicciamente soltanto qualche anno dopo. “ Avere in casa il filippino “ ( o la filippina ) era sinonimo di avere un o una colf, e quando si sospettava di qualcuno che fosse in odor di relazione extraconiugale si utilizzava la frase poco gentile “ si è trombato la filippina “.
E’ una strana popolazione. Metà asiatici e metà latini, parlano una lingua che suona di derivazione ispanica benché alla lettura risulti assolutamente incomprensibile. Osservai per qualche secondo quegli stranieri nei confronti dei quali, data la mia condizione migratoria, provavo un senso di solidale affinità.

M' immersi di nuovo nelle letture Disneyane ma la mia concentrazione fu spezzata dal gusto sgradevole del tè ormai divenuto freddo e da un rumore che mi fece sussultare: una bottiglia di vetro era andata in frantumi a pochi passi da me.
Mi trovai coinvolto in un caos esploso non si sa come. I pacifici, sorridenti ragazzi filippini si erano divisi in due gruppi e si stavano scagliando addosso insulti, lattine e bottiglie di birra vuote. Lo scontro corpo a corpo sarebbe arrivato poco dopo.
Lasciai sul tavolino il residuo di tè ormai imbevibile e feci per allontanarmi evitando di espormi come bersaglio degli oggetti volanti facilmente identificabili.

Chi conosce Milano sa che spesso nella piazza della " Madunina " sostano due postazioni mobili delle forze dell’ordine: presso la Galleria Vittorio Emanuele quella della Polizia di Stato; sul lato opposto, vicino a Palazzo Reale, si trovano i Carabinieri. Mentre cercavo di raggiungere il sottopassaggio della Metropolitana al centro della piazza, unico accessibile senza dover disturbare lo scatenato sciame cordillero, mi accorsi che proprio uno schieramento di Carabinieri in assetto antisommossa era partito lancia in resta ( cioè sfollagente alla mano ) e stava per caricare i litigiosi filippini che mi ero lasciato alle spalle. Pensai di tornare indietro per evitare la carica ma il mio piano sfumò velocemente: i poliziotti, con la medesima bardatura, erano partiti al gran galoppo dalla direzione opposta. Come il salame nel panino mi trovai a farcire nel mezzo lo spazio completamente invaso da filippini in rotta disordinata, poliziotti e carabinieri all’inseguimento: un vortice di bastonate, trascinamenti a forza e ammanettamenti in cui i colpi di manganello piovevano indiscriminatamente su teste di colpevoli e innocenti che in comune avevano la paura di essere colpiti e l’impiego dell'unico rimedio possibile, la fuga. Benché i miei lineamenti e la mia statura mi rendessero evidentemente distinguibile dai filippini mi resi conto che qualunque cosa accennasse un movimento veniva percossa dai solerti tutori della legge. Io, unica figura immobile al centro di quel pandemonio, chiusi gli occhi, inorridito da tanta violenza in cui buoni e cattivi erano ormai indistinguibili. In quel preciso istante la mia memoria evocò immagini di una stagione che non avevo conosciuto se non attraverso la visione del Telegiornale, componendo i fotogrammi di un altro film molto simile a quello che si stava proiettando in Piazza Duomo quella sera: il ’68, le proteste studentesche, le camionette della celere, le molotov, il sangue che virava in rosso il grigio dei cubetti di porfido.
Certo, una banale rissa scatenata da alcuni ragazzi che avevano bevuto troppo non era la stessa cosa. Però mi lasciò la medesima impressione.

Si creò un finalmente corridoio all'interno di quell'agglomerato umano e potei guadagnare l’accesso alla Metro senza conseguenze. Sul corpo, almeno. Rientrai nell’appartamento a tarda sera. I miei coinquilini stavano salmodiando il rosario delle prede femminili catturate in settimana mentre si preparavano ad accogliere per il weekend le fidanzate inconsapevolmente cornute. Salutai malvolentieri i due vanitosi fedifraghi e andai a dormire. Violenza e idiozia: troppa merda da sopportare in una sera sola.

2 commenti:

  1. Si, gli anni di "Milano da bere" sono così lontani ma è stata veloce la progressione verso la violenza.Siamo continuamente violentati in mille modi e siamo tutti indistintamente talmente compressi che ci vuole nulla per accendere una miccia. Ci detestiamo tutti, siamo sempre in una guerra tra poveracci e nella cosidetta società del benessere e del progresso, che tanto ci ha promesso, facciamo veramente un pò pena tutti.

    RispondiElimina
  2. Non potevi fare un'opera di sintesi migliore di questa. Hai interpretato perfettamente il sentimento che anima questo mio ricordo. Grazie.

    RispondiElimina